Cinema

 
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Dalla fucina d’oltreoceano alla fucina di Vulcano.
Storie di straordinario divismo - di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese -

L’Europa, nei primi anni del secolo XX, è tutta un cantiere cinematografico. Dai primi esperimenti dei fratelli Lumière nella Parigi raffinata e avida di cultura del 1899, lo strumento offerto dalla macchina da presa diviene la chiave e, nel contempo, il mezzo di lettura più potente del vissuto sociale. Capace di esplorare le pieghe più riposte della storia umana. La vita non più fissata in immagini statiche, ma creata e ri-creata nel suo divenire. Le sequenze del cinema muto raccontano emozioni, chiaroscuri altrimenti inesprimibili. Si fissano sui volti degli attori e delle attrici. Il loro sguardo intenso e bistrato di nero, diventa icona. Immagine sacra che sostituisce nell’immaginario collettivo le immagini tradizionali delle madonne e dei santi. Gli attori cinematografici diventano divi. Una parola di origine latina che sta ad indicare personaggi dotati di attributi divini. Il cinema, dunque, acquista il potere di reinventare il mondo per mezzo di immagini in movimento. Questo suo potere artistico si trasforma in poco tempo in una vera e propria industria mondiale. La fabbrica dei sogni, nata povera in Francia, approda in Gran Bretagna alla fine dell’800, fra Londra e la località balneare di Brighton. In pochi anni la “febbre del cinema”, come fu soprannominata la nuova moda, si diffonde negli Stati Uniti, a New York e nel New Jersey. La forza imprenditoriale dell’economia americana è il supporto dell’affermazione del cinema a livello mondiale. In America diventa una vera e propria fabbrica dei sogni. Le stelle fulgenti del firmamento del made in U.S.A. non sono più soltanto attori, ma vere e proprie divinità che ancora oggi brillano di luce propria. Proprio gli americani le chiamano star, con una chiara analogia agli astri dell’universo. E’ indubbio che questi personaggi sono un prodotto industriale. La diffusione della loro immagine, del loro corpo creato e plasmato in modo da rispondere ai desideri del pubblico. Soprattutto ai desideri proibiti, quelli che la massa reprime per abitudine. Il divismo cinematografico viene costruito proprio su questa zona oscura dell’immaginario collettivo. Lo sguardo delle grandi dive è come un terzo occhio che si spalanca sul mistero notturno. Quello dove si nascondono le nostre fantasie erotiche. Il sogno di una vita al di fuori delle regole comuni. Le dive stanno alla storia dell’erotismo come la danza sta alla musica. Sono le due facce della stessa medaglia. Sappiamo da numerose biografie delle dive per eccellenza, come la Garbo o Joan Crawford, quanto siano state protagoniste del loro successo e della loro affermazione. Infatti queste attrici sono state tra le prime che hanno intuito l’importanza dell’immagine sullo schermo. Erano queste star a esigere dal regista di turno che venissero riprese in pose fatali, con una luce che valorizzasse le espressioni mutevoli del viso, indossando abiti capaci di caratterizzare il loro personaggio. Sono state proprio Greta Garbo, Joan Crawford e Marlene Dietrich tra le prime dive del cinema sonoro. Hanno fatto loro la storia del costume del Novecento. Il loro sguardo e la loro posa hanno bucato lo schermo per sempre. Chi può dimenticare gli occhi della divina, la sua posa sorniona, che tanto hanno contribuito alla leggenda? La sua immagine ha fatto sì che la storia delle donne cambiasse in qualche modo. Greta Garbo era la donna fatale per libertini e per borghesi, alla ricerca del sogno proibito. Ma era anche una nuova immagine della donna. Ambigua. Androgina. Indimenticabili le pose e gli abiti di Joan Crawford. Il suo busto imponente e le gambe poco slanciate non furono più considerati difetti. Diventarono tratti essenziali del suo personaggio. Quello della donna sicura di sé, non delicata ma padrona del proprio carattere. Una donna capace di comandare, rinunciando al tradizionale ruolo della borghese sottomessa al potere maschile. Di una bellezza spigolosa, moderna, con le labbra carnose colorate da rossetti infuocati, il trucco accentuato per far risaltare gli occhi. Questa immagine l’ha consegnata al mito del cinema, insieme con il suo indiscusso talento drammatico. Ma c’è anche un lato della sua leggenda che rientra nel repertorio scandalistico. La Crawford fu la prima diva su cui furono scritti fiumi di parole. La stampa diceva che la sua carriera era stata costruita sui divani dei produttori. Un pettegolezzo diventato poi uno stereotipo nella storia del cinema. Greta Garbo e Joan Crawford furono le pioniere nel fare tendenza anche nella moda. La prima con il leggendario basco. La seconda con i tailleur glamour con le spalline imbottite. Ci pensò poi Marlene Dietrich, sessualmente ambigua come Greta Garbo, a percorrere i sentieri della trasgressione. Chi non ricorda i suoi occhi dallo sguardo crudele, il cilindro in testa, le gambe provocanti con le giarrettiere? Forse in assoluto il primo grande sex - symbol del cinema, prima di Rita Hayworth e Marilyn Monroe. Questo intreccio di trasgressione e di divismo è stato un fenomeno di costume. Ha rivoluzionato l’immagine della donna, trasformandola in soggetto di storie in cui spesso l’uomo diventava vittima del suo fascino. Queste dive hanno reso mediatico il mito della donna fatale, creato dalla letteratura decadente. Hanno portato D’Annunzio dentro lo schermo, facendo sognare aristocratici e borghesi e scandalizzando i bigotti. Hanno anticipato di alcuni decenni la dolce vita di via Veneto. Un fenomeno di costume gaudente e libertario, prima ancora che fosse immortalato nell’omonimo film di Fellini. Queste dive che hanno bucato lo schermo, creato mode e alimentato pettegolezzi non sono state insensibili al fascino della Sicilia. Già ai primi del Novecento l’isola mediterranea attirava la fantasia erotica di aristocratici e borghesi del Nord Europa. L’isola era diventata un sogno erotico a cielo aperto per personaggi d’alto bordo, per artisti e viaggiatori inquieti. Il fotografo tedesco Von Gloeden venne a Taormina e per primo fotografò splendidi fanciulli nudi, anticipando una tendenza di massa della cultura gay del Novecento. A Taormina vennero anche la Garbo e le altre, divise da un’innata rivalità. Dive in tutto, sia nell’estremo dell’esibizione che nel mistero del nascondimento. Dove si nascosero queste donne fatali? Non è un romanzo, è cronaca d’altri tempi. I giornalisti più informati e avidi di sensazionalismo sanno che sulla strada che porta da Taormina a Castelmola, per circa trent’anni, la villa di Gayelord Hauser, dietologo delle dive di Hollywood, ospitava nobildonne e nobiluomini, dandy e letterati eccentrici. Non sfuggirono alla tentazione né Greta Garbo, né Marlene Dietrich. Immaginiamo il loro totale distacco, secondo un copione che le voleva simili ma diverse. Pare che la divina non amasse le colleghe e che non volesse nemmeno vederle. Alla vita mondana preferiva la solitudine nelle camere a lei riservate. Recitava la parte che le era stata data nel cinema, quella della donna irraggiungibile, poco disposta alle banalità del mondo. A Taormina venne anche la rossa Rita Hayworth, incarnazione della femminilità più terrena. Ovvio che la Garbo non volesse nemmeno vederla. Erano antitetiche. L’una non poteva uscire dalla propria leggenda di creatura sublime. L’altra annunciava una femminilità nuova, carnale e disinibita, fino al limite dell’impudicizia. info@riccardodisalvo.it / info@claudiomarchese.it