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“Il gattopardo” di Visconti compie 50 anni
Un pezzo dell’Italia nel film del regista milanese - di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese -

Abbiamo letto romanzi come “I Malavoglia” di Verga che sembravano lontani anni – luce dal cinema. Un geniale regista milanese come Luchino Visconti, nel 1948 lo rilesse secondo i canoni neorealistici di quei tempi e ne trasse “La terra trema”. Un film scabro come gli scogli di Acitrezza, girato con attori presi dalla strada. Si usava così allora, era lo stile del primo Rossellini e del primo De Sica. Abbiamo letto romanzi difficili da tradurre in immagini cinematografiche come “L’innocente” di D’Annunzio. Lo stesso Visconti nel 1976 ne ricavò uno splendido film melodrammatico, dove la storia narrata nel romanzo si trasforma in una sinfonia di sequenze liriche e visive con effetti liberty, secondo lo stile del giovane D’Annunzio. Protagonisti erano Giancarlo Giannini nella parte di Tullio Hermil e Laura Antonelli nella parte di Giuliana. Il decollo vero e proprio del Visconti lettore della decadence mitteleuropea avviene nel 1969 con “La caduta degli dei”, primo film della “trilogia germanica” che raggiunge l’apice dell’estetismo con “Morte a Venezia” (1971) e con “Ludwig” (1972 – 1973). Ma il punto di cesura tra la fase neorealistica e quella decadente è senza dubbio “Il gattopardo”, girato nel 1962 e vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1963. Il primo ciak ebbe luogo il 14 maggio 1962, ma già nell’autunno dell’anno precedente, il regista aveva effettuato un attento sopralluogo in Sicilia, alla ricerca dei luoghi adatti alla messa in scena. Infatti il film era una rilettura alla Visconti del romanzo “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, scritto tra il 1954 e il 1957. Rifiutato da Einaudi e da Mondadori, pubblicato postumo da Feltrinelli, il romanzo dello scrittore siciliano diventò un best – seller e ancora oggi è uno dei long – seller della letteratura italiana del Novecento. Lo vendono nelle librerie ma anche sulle bancarelle. Il romanzo di Tomasi di Lampedusa è un ampio affresco della società siciliana ottocentesca, ispirato dalla biografia dell’autore medesimo e dal bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, vissuto nell’epoca storica del Risorgimento. Sulla base autobiografica lo scrittore ricostruisce gli ambienti della nobiltà siciliana, nel momento storico dello sbarco dei Mille. Protagonista è don Fabrizio, principe di Salina, nobile libertino sposato con una moglie bigotta che si fa il segno della croce, prima di ogni rapporto coniugale. Il nobile assiste con rammarico all’inesorabile tramonto della classe aristocratica, rappresentata da uno stemma che raffigura un gattopardo, simbolo di potenza e di gloria. Allo sbarco dei Mille don Fabrizio è spaventato da ciò che sta accadendo sulla sua isola. Vede in Garibaldi una minaccia all’ordine feudale – borbonico, perché l’eroe mazziniano vuole non solo l’annessione dell’isola al regno di Piemonte e Sardegna, ma promette anche la distribuzione delle terre ai contadini. Un rovesciamento, insomma, dell’arcaica società siciliana basata sui riti familiari: sontuosi ricevimenti mondani, recita collettiva del rosario, interminabili balli aristocratici. Antagonista del principe Fabrizio di Salina è il brillante nipote Tancredi, cinico osservatore della storia che sta cambiando. Il principe si rifiuta di fuggire per un atavico orgoglio nobiliare, mentre il nipote vuole unirsi a Garibaldi, non tanto per amore patriottico, quanto per evitare che l’occupazione dell’isola diventi un fatto rivoluzionario. Con spregiudicatezza da politico affarista, Tancredi sembra il prototipo dell’uomo di potere che finge di credere in una nuova Italia, mentre il suo obiettivo è quello del compromesso con l’ordine esistente. Possiamo dire un prototipo dell’Italia berlusconiana di fine Novecento. Dice Tancredi al vecchio zio orgoglioso “Se non ci siamo noi , quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. La frase è rimasta nell’immaginario collettivo come espressione della mentalità gattopardesca tipica della Sicilia rassegnata ad accettare il cambiamento, sapendo che nulla cambierà. Professione di pessimismo storico che colloca il romanzo di Tomasi di Lampedusa fuori dal novero dei romanzi storico – risorgimentali come quelli di Nievo e del giovane Verga. Qui il Risorgimento non si situa più sull’asse indipendenza – cambiamento, ma sulla sfiducia totale che la storia sia lo spazio delle “magnifiche sorti e progressive”. Il Risorgimento è vissuto al rovescio come tradimento degli ideali garibaldini. Nel film Visconti adotta lo sdoppiamento della prospettiva. Come in tutti i romanzi decadenti, il protagonista è il doppio o alter ego dell’autore. L’occhio cinematografico si sostituisce a quello del narratore. Nel film il principe Fabrizio ha il volto voluto dal regista, quello del grande attore Burt Lancaster, mentre il produttore avrebbe voluto l’attore inglese Laurence Olivier. Nella rilettura cinematografica del romanzo, l’occhio che domina tutto non è impersonale ma è personalizzato al massimo. E’ lo stesso Visconti che si rappresenta come interprete della decadenza del proprio mondo aristocratico, che sta per essere fagocitato dalla massificazione borghese. Un Visconti simile al conte Andrea Sperelli del romanzo “Il piacere”. Mentre la nobiltà siciliana, con estremo orgoglio, non accetta il cambiamento, ci pensa il ceto medio – borghese di Calogero Sedara – nel film Paolo Stoppa – uomo di mediocre cultura ma scaltro affarista. La figlia Angelica – nel film una splendida Claudia Cardinale – è la sua erede. Affascinante , nonostante sia priva di modi aristocratici, fa innamorare di sé lo scaltro Tancredi – nel film l’incantevole Alain Delon -. Il genio di Visconti si manifesta proprio nella rilettura della storia siciliana ottocentesca, con l’occhio dell’esteta che fa di un film ciò che Wagner chiamava l’ “opera d’arte totale”. Perfetta fusione di dramma, arte visiva e melodia. Ecco perché il regista dilata la scena del ballo per circa un terzo della pellicola. E’ la scena – chiave di tutto il film. Il canto del cigno di una classe di antica ed eletta cultura che si avvia al tramonto, sulle note seduttive e struggenti della “Traviata” di Verdi, l’opera che fu anche il capolavoro teatrale del grande regista melodrammatico. info@riccardodisalvo.it / info@claudiomarchese.it