I love infradito
Colorate, pratiche e divertenti
Non c’è niente da fare, l’estate è sinonimo d’infradito e al primo raggio di sole ecco che spuntano ai piedi. È come se fosse un richiamo primordiale al quale non possiamo sottrarci... è come dire che il caffé
è buono, ma che con la panna è meglio (ci siamo spiegati?). È per antonomasia la calzatura sulla quale i produttori si
sbizzarriscono di più: dal tipo di materiale (plastica, cuoio, legno, componenti riciclabili), alle fantasie
(frutta, geometrie, animali) e proprio quando ci sembrava di averne viste ormai
di tutti i “colori”, ecco che compare un modello nuovo, “curioso” o elegante. Proprio come tutte le “cose cult”, anche
per l’infradito “l’abuso” è all’ordine del giorno: se durante il dì su di lei calzano a pennello, su di lui invece sorgono le prime perplessità; anche se comode e pratiche dobbiamo ricordarciche se abbinate in malo modo possono farci fare la figura del “pescatore proletario”. Durante la sera invece accade proprio il discorso contrario:
su di un lui casual / elegante acquistano grinta e carattere, su di una lei invece perdono di tono. Ovviamente ci riferiamo
all’uso in città. I designers della moda ogni anno se ne inventano una e propongono sempre nuove creazioni al passo con
i tempi e con le tendenze del momento.
Le infradito hanno un’origine antichissima, modelli simili erano già di uso comune nell’antica Roma ed in Grecia dove le
calzature più elaborate erano prestigiosi status symbols. Per la tradizione giapponese invece esistono ben due tipi: zōri e waraji, entrambi corredati, per occasioni più formali, da apposite
calze chiamate tabi. Gli zōri da donna in stoffa è considerata una calzatura formale, mentre se costruiti in broccato sono esclusivamente utilizzati durante le cerimonie. Gli zōri da uomo invece sono assemblati con il polistirolo espanso, le
suole sono in sughero e sono pressoché identiche: in pratica non c’è alcuna distinzione fra la destra e la sinistra.
I waraji sono dei sandali tradizionali giapponesi fatti di corda di paglia. In passato erano la calzatura standard per le persone comuni, oggigiorno invece è la “scarpa” indossata dai monaci buddhisti. La tradizione vuole che il piede vada oltre il
bordo anteriore in modo da far sporgere le dita per tre/quattro centimetri fuori dalla pianella.
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